mercoledì 28 agosto 2013

Viva il brunch del weekend

Dormire fino a tardi senza rinunciare al dolce piacere della colazione e all'abbondanza di un pranzo completo. 
I piatti perfetti da preparare per un brunch con gli amici

French toast
pancarré
3 uova
200 ml di latte
5 fragole
30 gr di burro
il succo di 1/2 arancia
1 bustina di vanillina
2 cucchiai di zucchero
1/2 cucchiaino di cannella
noce moscata qb

In una teglia sbattete le uova con il latte, la vanillina, la noce moscata, il succo di arancia, la cannella e lo zucchero. Inzuppate le fette di pane in questo composto e rosolatele in una padella con un po’ di burro e olio. Servite i toast caldi, accompagnati da una macedonia di fragole condite con zucchero e limone.

Blueberry muffin
1 uovo
250 gr di farina
250 ml di latte
3 cucchiaini di lievito per dolci
125 gr di mirtilli
125 gr di zucchero
60 gr di burro
un pizzico di sale

Mescolate le uova con lo zucchero, aggiungete il burro fuso, il latte e la farina mescolata con sale e lievito.
Prima di incorporare i mirtilli o l’uvetta (per il cioccolato non è necessario), infarinateli e uniteli all’impasto mescolando delicatamente.
Imburrate e infarinate circa 12 stampini da muffin e riempiteli di impasto per circa 3/4. Fate cuocere in forno a 180° per 20 minuti.

 
Pancakes
due cucchiai di zucchero
180 g di farina bianca 00
1 cucchiaino di lievito in polvere
un pizzico di sale
tre uova
250 ml di latte
125 g di ricotta fresca
burro fuso per spennellare
sciroppo d’acero
mirtilli freschi

In una ciotola setacciate la farina insieme al lievito, al sale e aggiungete i due cucchiai di zucchero.
In una seconda terrina sbattete (non montate) i tuorli (conservando gli albumi) insieme al latte fino a quando saranno amalgamati. Formate una fontana nella ciotola con la farina e versatevi all’interno il composto con i tuorli mescolando con una spatola. Incorporate poi la ricotta mescolando con cura.
Montate gli albumi a neve ferma e incorporateli con movimenti dall’alto verso il basso alla pastella a base di tuorli.
Scaldate una padella antiaderente e spennellatela con un po’ di burro.
Versate un mestolo scarso di pastella nella padella creando delle frittelle circolari che farete cuocere finché non saranno ben dorati. Procedete in questo modo fino ad esaurimento della pastella, avendo cura di spennellare di tanto in tanto la padella con il burro fuso.
Servite i pancake caldi insieme allo sciroppo d’acero e ai mirtilli freschi.

Eggs Benedict
Le Eggs Benedict sono un piatto composto da un muffin inglese tagliato a metà, condito con bacon, uova in camicia e salsa olandese.
 Per 4 persone
quattro uova
quattro fette di pane
quattro fette di bacon,
un cucchiaio di aceto di vino bianco
olio d’oliva
sale e pepe
Per la salsa olandese:
100 gr di burro
un cucchiaio di farina
due tuorli
succo di un limone
un bicchiere d’acqua bollente
sale e paprika

Preparate la salsa olandese facendo fondere in una casseruola una noce di burro e un cucchiaio di farina quindi bagnate con l’acqua bollente; lavorate bene la salsa in modo che non si formino grumi.
Aggiungete i tuorli e mescolate bene, poi incorporate gradatamente il burro ammorbidito continuando a montare la salsa.
Infine profumate con il succo di limone.
Preparate le uova in camicia in acqua acidulata con l’aceto, nel frattempo fate tostare le fette di pane. Saltate le fettine di pancetta in pochissimo olio d’oliva.
Al momento di servire le Uova Benedict disponete sui piatti le fette di pane, quelle di pancetta poi le uova, infine coprite con la salsa olandese e una spolverata di paprika.

Focaccia al rosmarino
Per l’impasto
una patata
350 gr di farina
un cubetto di lievito di birra
2 cucchiai di olio
50 gr di burro
acqua tiepida qb
sale
zucchero
Per la salamoia
acqua
olio
sale
rosmarino

Schiacciate la patata e mescolatela insieme alla farina, il lievito, un pò d’olio, burro, sale ed un pizzico di zucchero. Aggiungete poi un pò di acqua tiepida ed impastate per bene il tutto.
Mettete poi a riposare il panetto ottenuto riponendolo in una tortiera che avrete unto d’olio per almeno 40 minuti.
In una tazza preparate una salamoia mescolando con un dito d’acqua l’olio e il sale.
Versate la salamoia sulla focaccia che sarà, nel frattempo, lievitata ed aggiungete il rosmarino.
Mettete a cuocere la vostra panfocaccia in forno ventilato a 200° per circa 30 minuti.

 Crespelle ai funghi
 Per le crespelle:
due cucchiai di farina bianca
un uovo intero
un tuorlo d’uovo
250 ml di latte
una grattatina di noce moscata
un pizzico di sale
Per il ripieno:
600 g di funghi
due cucchiai di prezzemolo tritato
due cucchiai di olio di oliva
uno spicchio di aglio
sale q.b.
300 ml di besciamella
200 g di formaggio tipo fontina
200 ml di panna
50 g di burro
due cucchiai di parmigiano grattugiato
foglioline di maggiorana

Frullate latte, uova, farina, noce moscata e sale e riscaldate bene il padellino ungendolo con poco burro.
Versatevi tre cucchiai di pastella ruotando il padellino in modo da ricoprire bene il fondo.
Dopo un minuto, infilando una spatola di legno sotto la crespella, rigiratela e cuocetela per pochi secondi. Fate poi scivolare la crespella su di un piatto e mano a mano che sono pronte mettetele una sull’altra e fatele raffreddare.
Nel frattempo pulite bene i funghi e fateli saltare in una padella con l’olio, il prezzemolo e un spicchio d’aglio.
Aggiungeteli poi alla besciamella in cui avete sciolto il formaggio.
Mescolate bene aggiungendo la panna in modo che il composto risulti bello cremoso. Spalmate su ogni crespella un po’ del ripieno ai funghi, poi piegatela in quattro.
Adagiate le crespelle in una pirofila imburrata sovrapponendole leggermente, versateci sopra la besciamella ai funghi avanzata, aggiungete dei fiocchetti di burro, cospargetele con il formaggio grattugiato e infornate a 180 gradi per circa 15 minuti.

La cosa a cui tengo di più è la libertà da qualunque costrizione

Abbiamo tutti troppe cose, sono sicura che vivremmo meglio con meno oggetti e parlando di denaro attribuisco il valore del semplice strumento. Nessun altro. 

Mi sono accorta che serve poco per vivere. Quasi tutto quello che faccio, quello che mi interessa e fa parte della mia vita, costa poco. Non mi servono macchine ultimo modello, case a Cortina, vestiti alla moda, non ho bisogno di alcun oggetto particolare per essere felice. 

La cosa a cui tengo di più è la libertà da qualunque costrizione, sono sempre stata così.
Amo poter perdere tempo, poter perdere tempo con mio nipote, mia sorella, con mia mamma e mio papà, amo poter fare due passi di danza con mio marito così senza un perché, e stare con gli amici veri.

Questo tuttavia non è il mondo dei sogni. Si può sognare stando nel mondo così com’è, come cerco di fare, come fanno molti. Per questo quasi tutto quello che faccio con passione è in vendita.

Vendo i miei lavori di pittura, vendo le mie torte, i miei biscotti, un giorno forse affitterò casa, vendo quel che so fare, cucinare e dipingere e poi ogni tanto scrivo. Se non mi servissero per vivere, non vorrei soldi per quel che so fare. Regalerei e inviterei tutti gratis. Chi mi conosce lo sa. 
Se avrò fortuna lo farò.

Però sono orgogliosa di questo schema di vita. Non provo alcun rimorso o vergogna. Vergogna la deve provare chi sostituisce la gioia vera con quella fittizia del consumismo, chi non si emoziona per una frase scritta su un libro o chi non ascolta. Vendere quello che so fare per essere libera è una bella storia. Più bella di quando lavoravo, guadagnavo, avevo un ruolo sociale più definito. Quella vita mi piaceva, ma non ero libera e poi la conoscevo troppo.

Una delle cose che dico a tutti è: “Devi festeggiare un avvenimento importante? oppure devi dipingere qualcosa? Chiedi un preventivo. Io ti organizzo un aperitivo, un una cena in terrazzo, un tea party in un giardino, un picnic in riva a un fiume sarà tutto sorprendentemente magico e pieno di poesia e per quanto riguarda la pittura ti dipingo per la metà”. A me che un prezzo sia alto o basso, giusto o ingiusto, non mi interessa. Non mi devo arricchire. Mentre cucino e mentre dipingo penso molto, e dunque sto bene. Faccio i miei lavori con calma, e cerco di farli bene. Se qualcuno risparmia il cinquanta per cento e io guadagno qualcosa, va bene così. E’ una nuova economia. Tempo contro denaro. E vince sempre il tempo. Cioè la vita vera.

L’unica certezza della nostra esistenza è che moriremo e questo dovrebbe essere il più potente motore per darci la carica. Sul resto si può discutere. Dovremmo temere solo questo appuntamento fatale, e invece siamo pervasi dalla paura di sconvolgere il nostro provvisorio equilibrio. Dovremmo apprezzare quel che c’è, perseguire la conoscenza, accumulare esperienze, cercare l’equilibrio interiore e l’armonia, godere di noi stessi e delle relazioni con gli altri… e invece no. L’unica cosa che non torna indietro è il tempo e noi lo sprechiamo tra paure e incombenze inautentiche. Lo riempiamo, non lo utilizziamo. Lo schema fisso che tutti seguiamo (lavorare, consumare, sprecare) è un rimedio alla paura di morire: teniamo occupata la mente per non pensarci.

Contro la paura, bisogna scoprire che si può vivere con poco, oltre lo schema "lavoro, guadagno, spendo".

Le paure diffuse sono tante, e si tratta di sentimenti comprensibili. Ci siamo attrezzati per affrontare un certo tipo di vita, adeguandoci a uno schema preciso, senza alzate d’ingegno, senza grilli per la testa, senza creatività. Non siamo una generazione di innovatori ma di esecutori, un po’ come questa non è un’epoca di invenzioni ma di applicazione di invenzioni precedenti. Il salto innovativo è stato fatto decenni fa con il computer; ora lo si deve far lavorare, trovando il modo di sfruttarlo al meglio. Lo stesso è avvenuto sul piano sociale. L’innovazione è stata il benessere diffuso, sorretto dal consumo. Ora bisogna pigiare al massimo su quell’acceleratore. Non c’è un’ipotesi alternativa. Tant’è che nessun politico immagina una vita diversa. Anche la sinistra è preoccupata del calo dei consumi.

Neppure la paura più ancestrale, quella di morire di fame, può ritenersi fondata. Oggi di fame da questa parte del globo "nessuno muore". Le altre sono tutte remore psicologiche, dettate dall’insicurezza e dalla caducità delle speranze. Spesso le paure si presentano associate in un cocktail che immobilizza. 
Il loro effetto principale è che ci impietriscono. Quando riescono a bloccarci, costringendoci a fare ogni giorno le cose di sempre, senza idee, senza cambiare mai, il loro obiettivo è raggiunto. Non sto parlando del timore che ci assale quando dobbiamo attraversare un ponte pericolante. In quel caso si tratta di buon senso: se il ponte dovesse cedere, cadremmo nel vuoto e moriremmo. Le paure del cambiamento non sono così. Se provo, comunque, non muoio. Anzi, se provo morirò comunque, come è scritto, ma non ora. Dunque perché non tentare? Perché non tentare almeno parzialmente, trovando una via intermedia, saggiando il terreno in modo graduale?

Ecco che la paura comincia a cedere. Un po’ come quando proviamo ad assaggiare sulla punta della lingua una pietanza che temiamo non ci piaccia. Quella convinzione ci immobilizza, ma se facciamo almeno il gesto di provare, la paura scricchiola, la pietanza potrebbe piacerci, l’immobilità potrebbe sciogliersi in un progresso. Per me è andata così. Fatto qualche passo, il mio ponte si è rivelato più solido del previsto e l’ho attraversato. Non solo. Dopo anni che vivo “dall’altra parte del fiume” non sono ancora morta, e non ho progetti imminenti a riguardo. “Di là dal fiume e tra gli alberi” la vita è anche difficile, anche dura, ma dà molto senso alla mia vita averci provato. Morirò anche io, certo, ma senza alcun rimpianto verso le scelte di vita che ho avuto a disposizione. Forse, per questo, morirò di meno.

domenica 25 agosto 2013

Quel luogo non poteva essermi più estraneo, ma avrei voluto essere là

Da che mi ricordo ho progettato viaggi, avventure e banchetti fin da bambina. 
Sdraiata sul pavimento della mia camera sfogliavo il National Geographic, rimanendo le ore a guardare quelle foto patinate. Le immagini che più mi rapivano però non erano quelle di esotici paesaggi o di siti archeologici. Erano foto di persone in luoghi sperduti della terra.

Una che ricordo in modo particolare è di un villaggio dell'India centrale, dove una donna avvolta in un sari turchese era intenta ad accendere un fuoco sopra il quale vi era appesa una pentola annerita. Incantata ricordo di aver ispezionato attentamente la misteriosa pietanza color ocra che cuoceva al suo interno. Quel luogo non poteva essermi più estraneo, ma avrei voluto essere là a sentire l'onore della legna bruciata, ascoltare il fuoco scoppiettare e assaggiare il cibo che mi sembrava essere il più delizioso che potessi immaginare. Quella foto per me era la porta verso un altro mondo, altri colori, altri sapori.

Oggi, dopo tanti anni dal primo momento in cui nasce dentro di me l'idea di un viaggio, ad animare la mia curiosità e a stimolare la mia fantasia non è soltanto le cose che vedrò e che visiterò. A stuzzicare le mie aspettative oltre ai monumenti e ai paesaggi, sono anche i piatti che mangerò. Per questo la prima cosa che faccio appena arrivo in un posto nuovo è buttarmi per le strade, intrufolarmi tra la gente, curiosare tra i mercati e poi rallentare il passo e annusare l'aria perché mi piace provare ad immaginare attraverso gli odori cosa starà assaporando chi vive li.

Oltre a questo amo mettermi a caccia del "miglior ristorante". Ma a guidare la mia ricerca non sono solo i suggerimenti di una buona guida, perché per "migliore ristorante" non intendo il più costoso o il più alla moda. Intendo quello che meglio interpreta la cucina locale, che la rappresenta nella sua forma più autentica, genuina e gustosa in modo che attraverso i piatti della tradizione del posto in cui sono, riesco a conoscere il popolo, si svela e mi racconta la sua storia, scoprendo gli ingredienti mi racconta il territorio e godendo dei suoi profumi e dei suoi sapori riesco a dialogare meglio e alla fine per magia si riesce persino a comunicare pur parlando lingue diverse. 

Può sembrare strano ma più si va a cercare, scoprire e provare prodotti locali più si contribuisce anche alla loro sopravvivenza.
Viviamo in un periodo dove purtroppo per noi la globalizzazione sta cancellando le produzioni locali, prime fra tutte le più piccole. Lo scenario che si prospetta e che da Roma a Dakar, da New York a Rio de Janeiro si mangeranno le stesse cose, bisogna darsi da fare per scongiurare questo disastro dovuto alle cattive abitudini dei "non viaggiatori" quelli che rinunciano alla scoperta delle cucine del posto per banalissime, impersonali e ovvie proposte internazionali rinunciando alla storia e alla poesia.

Spero e mi auguro che questo mio scrivere sia da stimolo per chi mi legge per alimentare la curiosità e di aiuto a mettere sempre più gusto nei propri viaggi. 
Io dal canto mio non mi stancherò mai di andare a scovare i "migliori ristoranti". Non mi stancherò mai di assaggiare nuovi piatti in nuovi luoghi. Non mi stancherò mai di tornare in posti dove sono già stata per riassaggiare piatti che proprio non riesco a dimenticare.

Vorrei che queste parole fossero una piccola finestra spalancata sullo sconfinato, variegato e molteplice panorama delle cucine del mondo.

martedì 6 agosto 2013

Visitare, conoscere e amare "Le Perigord et ses Salades"

Visitando la Francia uno dei miei migliori ricordi è legato al sud ovest della Francia e propriamente a le Perigord.

Con il termine Perigord, si indica una zona geografica del Sud Ovest della Francia e che grossomodo corrisponde alla Dordogna, uno dei dipartimenti nei quali è suddivisa la regione dell’Aquitania. A sua volta, il Perigord è diviso in quattro aree differenti: Perigord Rouge, Perigord Blanc, Perigord Noir e Perigord Vert.

Non si può comprendere e apprezzare la Dordogne-Périgord senza amare la natura e non si può non venire nel Périgord senza visitare Sarlat e la vallata della Dordogne, famose per i paesaggi pittoreschi di Castelnaud e Limeuil, che recano il marchio di “Plus beaux villages de France”, e i castelli medievali di Beynac e Castelnaud.

Non dimentichiamo poi che la Dordogne è la terra dei 1001 Castelli.

Come dicevo, Rouge, rosso, è la zona intorno a Bergerac e deve il suo nome ai pregiati vini prodotti nelle sue storiche cantine e al colore delle foglie dei vigneti i pampini in autunno; Blanc, bianco, ha Riberac come centro principale e la bella e candida pietra calcarea come prodotto tipico, da cui il nome. Noir, nero, per i fitti boschi di querce, ha la cittadina di Sarlat la Caneda come capoluogo; infine il Perigord Vert, così chiamato per i suoi pascoli che, grazie alla presenza di numerose sorgenti sotterranee ed al clima mite, restano verdi per tutto l’anno.

Se non bastassero i suoi paesaggi, i suoi pittoreschi villaggi e la sua storia millenaria a farci sognare di visitare questa bella parte di Francia, il Perigord ha un’altra carta da giocarsi: la sua gastronomia.

Non solo foie gras e tartufi neri, che già da soli basterebbero, ma anche i meravigliosi salumi di suino "Cul Noir" così come di cinghiale, di cervo o di oca e anatra; formaggi di vacca, pecora e capra; fragole dolci, succose e profumate come non se ne trovano più; noci tenere e saporitissime dalle quali si estrae un olio davvero ottimo e poi i vini, famosi ed apprezzati in tutto il mondo, come i rossi e i bianchi di Bergerac o il dolce e dorato Montbazillac, compagno ideale e praticamente inseparabile del foie gras. La vicinanza con il Limousin e i verdi pascoli del Perigord Vert, forniscono una delle carni bovine più apprezzate al mondo, a pari merito con la nostra Chianina.

Nel ricco menù perigordino, les salades, le insalate, occupano un posto di tutto rilievo. Costituiscono l’entree di pranzi o cene di più portate, così come il piatto unico di un pranzo o una cena leggera. Praticamente ogni bistrot o table d’hote le propone. Le principali e più frequenti sono la Salade perigourdine, la Salade de gesiers de canard e la Salade de chevre chaude, quest’ultima non di origine perigordina, ma comunque molto diffusa, come nel resto della Francia, e qui proposta con gli ingredienti tipici della zona.

Non si tratta di vere e proprie ricette, piuttosto di suggerimenti su come utilizzare al meglio alcuni dei meravigliosi prodotti del Perigord.

Soprattutto per quanto riguarda la Salade perigourdine, si possono variare le lattughe, possono esserci o meno i pomodori o la pancetta rosolata, anche il foie gras non sempre è compreso, ma di sicuro non devono mancare il magret de canard séché, affumicato o meno, le noci e l’olio di noci. Il magret de canard séché, è uno dei salumi tipici della regione e altro non è che petto d’anatra messo dapprima sotto sale e poi fatto stagionare da pochi giorni ad un massimo di tre settimane con pepe ed altre spezie a scelta. Ne esiste anche una versione farcita di foie gras, che è di una bontà indescrivibile. Piuttosto facile da fare anche a casa a patto di avere un filetto di petto d’anatra di ottima qualità e cicciottello.

Magret de Canard séché fait maison
1 petto d’anatra
di circa 300 g
500 gr di sale grosso
1 cucchiaio di pepe

macinato fresco
spezie ed erbe aromatiche

a scelta, facoltative
Versate uno strato di sale in un contenitore poco più grande del petto d’anatra, adagiatevi la carne con la pelle in basso e coprite con il resto del sale. Chiudete il contenitore con il suo coperchio e con della pellicola e riponetelo nella parte meno fredda del frigorifero. Il tempo di salatura varia da 12 a 24 ore a seconda del peso del filetto e dal gusto che si vuole ottenere. Per un filetto di 300 g ed un gusto non troppo salato, 12 ore sono più che sufficienti. Trascorso questo tempo, togliete il petto dalla saltura e strofinatelo con un panno pulitissimo per eliminare tutto il sale. Ricopritelo completamente con il pepe macinato, premendo delicatamente con le mani per far aderire bene il pepe alla carne, ed adagiatelo su un panno asciutto e pulito. Cospargetelo con le spezie e le erbe scelte, (per me pepe rosa e timo), ed avvolgetelo nel panno. Fatelo stagionare in frigorifero, nella parte meno fredda, ma non nel cassetto della verdura, perché troppo umido. Anche il tempo di stagionatura varia a seconda del prodotto che si vuole ottenere e consumare: può essere gustato già dopo 48 ore, se si desidera una carne ancora rossa, morbida e umida, oppure attendete fino ad un massimo di tre settimane se si vuole una carne più secca e stagionata. Al momento di utilizzarlo, affettatelo non troppo sottile e gustatelo accompagnandolo da pane fresco o tostato ancora caldo, composta di fichi o fichi freschi o anche sottaceti.

Come dicevo, il magret de canard séché, è il principale ingrediente della Salade perigourdine, composta da lattuga, meglio se una misticanza, condita con una vinaigrette di olio di noci, aceto di vino rosso - (per me un aceto di vino Bordeaux invecchiato un anno in botti di quercia) e sale, sulla quale vengono disposte fettine di magret, noci e crostini di pane. Per una versione più lussuriosa una fetta di foie gras adagiata su del pane di campagna tostato è il massimo! Se poi vogliamo strafare, due lamelle di tartufo nero, quando è stagione, non ce le faremo certo mancare.